Tra le tante prelibatezze enologiche della Toscana una delle più sfruttate è senza dubbio quella del Vin Santo, vino tradizionale da fine pasto, divenuto famosissimo in tutta Italia e nel mondo con lo sventurato abbinamento cantuccini di Prato e Vin Santo. Dico sventurato perchè nella maggior parte dei casi, per star dietro alla moda, si servivano biscotti secchissimi e molto lontani dalla qualità di quelli originali dal sacchetto blu di “Mattonella” del forno Mattei a Prato e soprattutto si usava mescere vin santo liquoroso, reso cioè dolce dall’aggiunta di alcol e non dovuto al processo di appassimento delle uve in cantina.
Per ottenere un vino dolce ci sono infatti molti modi: quello utilizzato dal vinsanto Toscano tradizionale prevede la raccolta delle uve bianche (o anche rosse per la tipologia di Vin Santo Occhio di Pernice) e metterle ad appassire per 2-3 mesi in locali appositi detti appassitoio su stoie di canniccio oppure appeso su dei tralicci di ferro. Con il tempo e la ventilazione naturale, i grappoli perdono acqua e concentrano le sostanze zuccherine, acide e polifenoliche nell’acino. Quando vado a schiacciare (delicatamente!) queste uve dopo alcuni mesi ottengo un mosto dalla concentrazione zuccherina più alta del normale che viene fatto fermentare direttamente nei caratelli (piccole botti da invecchiamento tipiche toscane intorno ai 300 litri di capienza) grazie all’azione della “madre” del vinsanto ovvero una colonia di lieviti batteri e altri microorganismi che si tramandano di generazione in generazione (esattamente come la madre dell’aceto nelle acetaie Emiliane). Solo questi microorganismi sono infatti in grado di fermentare e di vivere in condizioni di solito mortali per lieviti comuni utilizzati per il vino standard.