Visto il mio amore per i vini Siciliani, oggi vi voglio raccontare la storia del Corvo di Casteldaccia un vino “palermitano”.
Un’antica leggenda greca racconta che:
il giovane Bacco, in viaggio per Nasso, vide una pianticella sconosciuta e, incuriosito, la divelse dal terreno e la pose, con un po’ di terra, in un osso d’uccello. La piccola pianta cresceva a vista d’occhio, cosi che il dio, per far posto alle radici, la mise dapprima in una tibia di leone, poi in una mascella d’asino. Giunto a Nasso egli trapiantò lo strano arbusto che a suo tempo diede fiori e grappoli, e questi, spremuti, purpureo dolcissimo vino.
Il mito (che simboleggia gli effetti progressivi del vino sull’uomo, dapprima leggero e canterino come un uccello, poi ardito come un leone, infine stupido come un somaro), ci interessa soprattutto per quel riferimento a Nasso che alcuni scrittori identificano con l’antica città prossima a Taormina, la più antica colonia greca in Sicilia.
In realtà la Nasso della leggenda è l’isola delle Cicladi nel Mar Egeo, famosa fin dal nono secolo per i suoi vini; però l’omonimia ha fatto pensare a molti che il primo nucleo di coloni greci provenisse dall’isola sacra egea che veniva anche chiamata, per la sua fertilità, «Piccola Sicilia». Se l’ipotesi fosse esatta si potrebbe legittimamente pensare ad una viticoltura impiantata da colonizzatori che ne conoscevano ogni segreto e ciò spiegherebbe il culto a Bacco cui erano sacre tanto la Nasso egea che la siciliana.
Tutto questo prova l’antichità della coltivazione della vite in Sicilia. La coltura si estese via via con l’espandersi della colonizzazione e subì una battuta d’arresto soltanto molti secoli dopo, quando gli Arabi, fedeli agl’insegnamenti della loro religione, non solo si disinteressarono totalmente delle vigne, ma proibirono perfino ai Siciliani di bere vino in pubblico.
Due secoli di decadenza di una coltura sono molti; anche se la vite resistette, molte tecniche di viticoltura furono dimenticate.